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Le parole per dirlo

Il racconto di una esperienza clinica, a cura della Dott.ssa Clarice Ranfagni, Psicologa e docente della formazione “Tra immagini e metafore: l’altra faccia del colloquio”, evidenzia l’importanza del saper trovare le parole giuste e la professionalità di interpretarle.

 

 

“Mi sento strana”

 

Tre del pomeriggio, nel mio studio con Anna.
Anna ha 43 anni. Sposata da 20, madre di due figli ormai grandi, casalinga.

“Buongiorno, come sta oggi Anna?”
“Buongiorno dottoressa… oggi…? non so… oggi… oggi mi sento… strana”
“Che cosa vuol dire mi sento strana?” mi chiedo e le chiedo.
“… una sensazione di… di qualcosa che…. diverso… insolito… insomma, strana… tanto lo sa cosa vuol dire?”

Dentro di me penso immediatamente “Eh no… No che non lo so che cosa vuol dire… Lo so per me, se la parola la uso io per definire qualcosa che sento che mi riguarda. Non lo posso assolutamente sapere se la parola la usi tu Anna – o chiunque altro abbia di fronte – e ho bisogno di comprendere appieno, che mondo ci sia intorno a quel “sentirsi strana”, il tuo soggettivo unico e irripetibile “sentirti strana”.
Quello che pronuncio a voce alta è “capisco Anna… capisco che non sia facile da spiegare ma, per la verità, no… non sono sicura di sapere cosa vuol dire… cosa vuol dire per lei… cosa vuol dire per lei oggi… cosa vuol dire per lei proprio ora che me lo sta dicendo…”
Anna mi guarda spaesata. Resta in silenzio. Poi si assenta qualche minuto con lo sguardo come se cercasse qualcosa oltre me, prima nella stanza e negli oggetti che ci circondano, poi dentro di sé. Riemerge dal silenzio con “strana… strana è tante cose…” e mi guarda di nuovo in un lungo silenzio, come se aspettasse da me qualcosa.
Mi rendo conto che ce la sta mettendo tutta. Mi rendo conto che ha provato a definirsi meglio dentro di sé quella sensazione per poterla poi descrivere anche a me. Mi rendo conto che, nel suo cercare internamente, non sta trovando “le parole per dirlo”. Ci prova con tutta se stessa ma non ci riesce. Sento che vorrebbe farlo ma scivola in uno spazio dove non sa come poggiare i piedi per proseguire.
Adesso tocca veramente a me. Non certo riempirla di risposte, quanto accompagnarla in questa ricerca, in questo dare forma e suoni a quel mi sento strana che oggi le tratteggia il cuore.

 

 

Le parole non bastano

 

Approfondire con altre richieste di parole, spiegazioni e approfondimenti relativi al mondo del pensiero, sulla falsariga della prima domanda che le ho già fatto, non ha dato grandi frutti, se non il suo rimandarmi un tanto lo sa cosa vuol dire. Non è questa la strada che possiamo percorrere adesso se voglio aiutarla a comprendere meglio ciò che sta intimamente vivendo.
È uno di quei momenti in cui “le parole non bastano”. E come dice Baricco nei suoi “Castelli di rabbia”: “E allora servono i colori. E le forme. E le note. E le emozioni”.
La strada da seguire è andare con lei dentro quella sensazione: far entrare in contatto Anna con la pienezza di quella sensazione e, quella sensazione, poterla al contempo conoscere in ogni sfumatura anche io. Esplorarla insieme a lei per darle, appunto, colori, forme, note, emozioni, per poter davvero condividere con lei quello che sta sentendo. Ed è qui che entra in gioco la capacità dello psicologo di lavorare con immagini e metafore. Quel “linguaggio altro”, oltre le parole comunemente intese, via privilegiata verso il mondo delle emozioni e delle sensazioni.
Respiro profondamente, rallento il ritmo, “distendo” le tensioni di corpo e cervello, e creo un clima di apertura. In me prima che in Anna, in me per poterlo “trasmettere” ad Anna. L’aria nella stanza cambia, siamo come sospese e fluttuanti, ma non più bloccate dalla “mancanza di parole”. Do “il la” ad Anna per tratteggiare il suo sentirsi strana: “in che modo potrebbe farmi sentire quello che sta sentendo adesso…?”.
Anna si ascolta per qualche attimo e, con un timido ma promettente luccichio negli occhi, esordisce: “ovattata… come un pesce in un acquario… niente di che…”.
Altro che “niente di che”! Ecco…! Una prima forma… una prima sensazione fertile… inizio a intravedere qualcosa, a avvicinarmi al suo sentirsi strana di oggi, proprio trovandomi ovattata come un pesce nell’acquario.

 

 

Il potere della metafora

 

Da quel momento la conversazione si riapre davvero, il cammino riprende, ci muoviamo mano nella mano in questa immagine, la arricchiamo di dettagli: il pesce è un pesce rosso con la codina appena striata di nero (“banale come mi sono sempre sentita io, una uguale a tanti altri, indistinguibile”), l’acquario è deserto (“non c’è mai nessuno vicino a me in questi momenti”) ed è troppo grande per un pesce solo (“mi ci perdo a girellare lì da sola, non ho punti di riferimento”), con pochi sassolini sul fondo, bianchi e anonimi (“non succede mai niente di speciale nell’acquario, è tutto sempre uguale”), i pochi rumori da fuori giungono flebili e ovattati da troppa acqua (“è come se niente mi raggiungesse, mi potesse arrivare vicino, neanche una voce”), il pesce va avanti e indietro, muovendo frenetico la sua codina (“è come me, non sa dove andare ma continua ad andare, senza meta”).
Giochiamo con le immagini e le intrecciamo alle sensazioni, le rimando le mie sensazioni alle sue immagini, costruiamo una trama di emozioni e vissuti che permette ad Anna di riconoscere quanto poi alla fine sia per lei, paradossalmente, rassicurante stare chiusa là dentro, nel suo “sentirsi strana” certo limitante ma anche protettivo: “non devi fare niente per gli altri, ciò che ti chiedono lo registri ed esegui meccanicamente… quando sono stanca e demotivata come in questi giorni è l’unico posto in cui riposare. Porto avanti il quotidiano egregiamente, come da copione (figli, marito, faccende, incombenze) ma dentro mi prendo una pausa. Nessuno da fuori si accorge davvero, così nessuno disturba questa mia quiete parallela. Non l’avevo capito neanche io. Forse è proprio un modo di proteggermi senza buttare all’aria tutto”, conclude Anna. E mentre lo dice sul viso le è riapparsa una luce a forma di sorriso.
Mi fermo qui – ai fini di questo scritto – anche se con Anna non è certo finita qui (anzi, è da qui che siamo partite alla ricerca di un modo diverso e meno alienante di “prendersi una pausa senza buttare all’aria tutto”).
Mi fermo qui perché quello che mi interessa sottolineare è quanto una nuova e fertile consapevolezza nella conoscenza di sé sia giunta dall’elaborazione di un’immagine apparentemente “banale”. Che non ho ascoltato in maniera statica fissandola come una foto a due dimensioni, come un “niente di che”, ma in cui mi sono immersa a 3D, per coglierne quell’essenza di movimento che ad ogni essere umano comunque appartiene. Anche quando sembra che tutto sia lì, fisso e uguale a sempre.
Esplorare il mondo delle emozioni con “parole altre”, attraverso le metafore ci dà la possibilità di ampliare il punto di vista su noi stessi, e di conseguenza arricchisce inevitabilmente l’esperienza personale trasformandola.
È (anche) per questo che il lavoro con immagini e metafore è uno “strumento” fine e potente che ogni psicologo deve aver cura di saper “ben maneggiare”.

 

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