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Cosa succede a chi ha perso qualcuno a seguito di un suicidio?

L’articolo è apparso nella rivista specializzata NUOVI ORIZZONTI, Anno VI – n° 12 luglio-dicembre 2014, Casa Editrice Scientifica ISFAR, ed è a cura del Centro Studi Specialistici Kromos.

 

 

In un incontro tra Specialisti Internazionali del Lutto e della sua elaborazione si è discusso di cosa succede alle persone che perdono qualcuno a seguito di un suicidio. Il dott. Simone Pesci a tal proposito ha aperto la discussione, citando un suo scritto (Pesci, 2014):

“quando una persona cara muore per suicidio, i sopravvissuti si auto-attribuiscono quasi sempre la colpa, sono afflitti da domande senza risposta, si interrogano ossessivamente su come avrebbero potuto aiutare il suicida, possono sentirsi abbandonati o rifiutati dalla persona che è morta per suicidio, verso la quale frequentemente manifestano forti sentimenti di rabbia mescolati con rammarico e tristezza”.

Kirk Axelson, autore del libro “Fantastic! How One Word Can Shape Your Destiny” e conferenziere, risponde alla citazione rendendo pubblica la sua testimonianza:

“il suicidio ha occupato tutta la mia vita. Tutto è iniziato quando mia madre ha tentato due volte: dagli abusi di suo padre ai suoi affari le facevano sentire la vita non degna di essere vissuta. Successivamente il suicidio del mio migliore amico: ero di fronte a risposte sconosciute come ero con lui la notte prima, il dolore era profondo e difficile per diversi anni. E ancora mia moglie è morta in un incidente, il che mi ha spinto a fare una overdose accidentale di sonniferi, whisky ecc., e tutto quello che volevo era il pensiero di smettere di sentirmi in colpa. Due settimane prima della sua morte, le avevo detto che stavolta l’avrei lasciata. Oggi benedico gli undici anni che io sono vivo per i nostri due figli: come avrebbero potuto convivere con la vita dopo aver perso la madre in incidente d’auto e il padre al suicidio”.

“Ogni suicidio è una tragedia – prosegue Axelson – vergogna o rabbia, tristezza sono le emozioni che prevalgono. La morte è difficile, a volte inspiegabile, e il suicidio è particolarmente difficile da elaborare”.

 

Il suicidio – ricorda Charlie Brown, Licensed Clinical Professional Counselor – sembra una soluzione permanente ad un problema temporaneo, in molti casi, in particolare quella degli adolescenti. Capisco che alcune persone sono così in profondità nella depressione che non possono immaginare di continuare su quella strada. Tuttavia, la maggior parte delle persone che li amano preferiscono tenerli anche in quello stato che rinunciare a avere quella persona amata nella loro vita. E sì, i sopravvissuti hanno spesso sia il senso di colpa che la rabbia e sembrano rimbalzare avanti e indietro tra quelle emozioni molto più di coloro che hanno perso i propri cari in qualche altro modo. Ma hanno anche un minor supporto da parte della comunità rispetto a quelli che hanno perso una persona cara in un incidente o una malattia. È come se il suicidio è uno stigma che è dipinto sulla fronte dei sopravvissuti, così come la persona che si suicida.”

A questo intervento fa eco Judi Hopkin, Grief Educator and Counselor, che ci tiene a precisare anche alcuni aspetti linguistici legati al suicidio: “le persone che hanno perso qualcuno per suicidio, trovano che il linguaggio usato per descrivere le morti suicidi stigmatizza ulteriormente una situazione tragica per chi vive un lutto e cerca di far fronte alla morte di una persona cara. Cambiare il linguaggio usato per descrivere il suicidio non è facile, ma il risultato contribuirà a ridurre lo stigma e le barriere al sostegno sopravvissuti attraverso la tragedia di una morte per suicidio.

Le espressioni committed suicide (commettere un suicidio, ndr), completed suicide, incomplete, unsuccessful or failed suicide attempts non dovrebbero essere usati in quanto la parola commit presenta un problema particolare in quanto è utilizzata anche per reati penali ed evoca che il suicidio è un atto criminale; il termine committed può avere, inoltre, un riferimento religioso negativo che richiama il suicidio come peccato. Questo si riferisce al tempo in cui qualcuno che a coloro che erano morti per suicidio non era permesso di essere sepolto nei cimiteri cattolici (Nel 1983, un decreto papale ha tolto tale divieto); anche descrivere un tentativo di suicidio che non si traduca in morte come un fallimento è fuorviante: dire che è stato un tentativo fallito automaticamente dice che la persona era un fallimento per vivere; dire che un tentativo è stato un tentativo di non riuscito fa dedurre che il morire doveva essere un successo. Ovviamente, il termine successo non riflette la realtà. Ogni suicidio è una tragedia.
I termini preferiti da usare sono morte per suicidio, è morto per suicidio, suicidato o è morto di propria mano – questi descrivono in modo più accurato la realtà del suicidio e rispettano le esigenze di coloro che sono rimasti”

Una precisazione terminologica che non sfugge a Carolyn Zahnow, fondatrice del The Shore Grief Center: “Mio figlio, che è morto per suicidio, non era un criminale e non ha commesso un reato quando è morto. Il suo unico crimine era di soffrire di depressione maggiore e degli effetti del metadone che lo rendevano paranoico e, senza dubbio, gli hanno dato il coraggio di porre fine alla sua vita. Conduco gruppi di sostegno per adulti che hanno perso qualcuno a causa di un suicidio e ho fondato un centro di supporto per il dolore legato al lutto”.

 

Graham Maxey, Associate Director at Center for Grief and and Traumatic Loss, fa una ulteriore considerazione, che nasce dalla propria esperienza: “ho sperimentato la rabbia che le persone possono sentire alla notizia del suicidio di un amico. Quando avevo trent’anni, un amico si è suicidato. Lo sentivo come un rifiuto e una negazione della nostra amicizia. E subito ha preso il centro della scena della tristezza della sua morte: questo, credo, è lo scopo emotivo della rabbia in quelle situazioni, mantenere la nostra consapevolezza lontano da quella tristezza, perché è lì che il vero dolore è. La rabbia si sente più forte e, anche se non una sensazione piacevole, è intuitivamente preferibile a quel profondo sentimento di disperazione e disconnessione. Eppure, è proprio nel riconoscere e affrontare quella tristezza che noi progrediamo attraverso il dolore”.

“Ho sempre creduto – interviene Kate Hamilton, Funerals, Grief, Bereavement Pins Supporting families – che quelli che si suicidano vita sono pieni di disgusto di sé, vivono in un inferno mentale ogni giorno. Stanno cercando di bloccare il dolore emotivo insopportabile e male, piangono per aiuto, sono in difficoltà e non riescono a trovare un’altra via d’uscita del loro dolore, il loro meccanismo di coping è andato in crash, si sentono soli e disperatamente depressi, di nuovo, sinceramente sentono di non avere altra scelta. È sempre devastante quando qualcuno crede che la che la vita non vale la pena di essere vissuta. Per i sopravvissuti il senso di rabbia è normale, come la colpa. Ho conosciuto molte persone che hanno deciso di lasciare questa terra e ho affrontato la loro perdita nella comprensione che il loro dolore deve essere stato insopportabile, dopo tutto il vero e proprio atto di prendere la tua vita non è una cosa facile da fare”.

E c’è chi come Todd Winninger, in modo tanto sintetico quanto preciso, dice che il suicidio “è un tema così incredibilmente triste e complesso. Il più grande successo, secondo me, – prosegue – è stato quando la Chiesa smise di parlare di peccato imperdonabile. Sono sicuro che c’è molto lavoro da fare sulla questione, ma è bello sapere che tutti i Suoi figli vedranno il volto di Dio”.

Sostegno psicologico e Psicoterapia del lutto e del lutto complicato, conclude il dott. Simone Pesci, a seguito di questi e altri significativi interventi, possono favorire nelle persone che hanno perso qualcuno a seguito di un suicidio l’elaborazione e l’integrazione della storia-evento della morte: il professionista può aiutarli infatti a cercare di trovare un significato alla storia-evento della morte così come alla loro storia di vita nel periodo immediatamente successivo, utilizzando procedure con maggiore attinenza al lutto iniziale e procedure che aiutano l’integrazione a lungo termine.

 

Bibliografia

Pesci, S. (2014). Sostegno psicologico e psicoterapia con il lutto e il lutto complicato. In Psicocittà.it, pubblicato dal 5 giugno 2014

 

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